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La sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2019 sulle indennità dei dirigenti pubblici locali e la “resistenza” delle norme legali e contrattuali “di favore”

Con la sentenza n. 138 del 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 81 e 117, comma 2, lett. l) e o), Cost., degli artt. 1, comma 3, 2 e 17, comma 2, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017, dell’art. 1 della legge prov. Bolzano n. 1 del 2018 e dell’art. 4, commi 1, terzo periodo, e 3 della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 11 del 2017, nella parte in cui hanno consentito ai dirigenti dei predetti enti territoriali (Provincia Autonoma di Bolzano e Regione Trentino Alto Adige) di conservare, come assegno personale, indennità di direzione e coordinamento a vario titolo percepite dopo la cessazione dei relativi incarichi, poiché dette previsioni hanno inciso su due materie di competenza esclusiva statale, quali l’ordinamento civile e la previdenza sociale, determinando una lesione diretta dei principi posti a tutela dell’equilibrio del bilancio e della copertura della spesa presidiati dall’art. 81 Cost..

La relativa questione di legittimità costituzionale non è stata sollevata da un ente istituzionale o da un giudice ordinario ma dalla Corte dei Conti, sezioni riunite per la Regione Trentino-Alto Adige, nel corso di due giudizi di parificazione per l’esercizio finanziario 2017 dei rendiconti generali della Provincia autonoma di Bolzano e della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol.

La Corte Costituzionale rammenta nella propria motivazione che le disposizioni di leggi provinciali e regionali dichiarate costituzionalmente illegittime hanno consentito ai dirigenti dei predetti enti territoriali di conservare, a partire dal lontano 1992, come assegno personale e pensionabile, indennità di direzione e coordinamento a vario titolo percepite anche dopo la cessazione dei relativi incarichi.

Inutile dire che tali norme hanno inciso sulla spesa pubblica, determinandone un effetto espansivo e, alterando la consistenza del risultato di amministrazione, hanno incrementato indebitamente le poste passive del bilancio.

La vicenda non interessa solo norme di legge provinciali ma in realtà parte dalla disapplicazione, operata, sempre dalla Corte dei Conti – secondo il combinato disposto degli artt. 7, comma 5, e 2, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 2, comma 1, lettera o), della L. 23 ottobre 1992, n. 421 – di una serie di disposizioni contrattuali collettive che nel corso di due decenni avevano cristallizzato tale meccanismo.

Ed infatti, dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, l’erogazione delle indennità di dirigenza, in assenza di espletamento del corrispondente incarico, era stata prevista con diverse, ma teleologicamente equivalenti, norme contenute in contratti collettivi regionali e provinciali a partire dal 1999 (trattasi in particolare dei seguenti contratti collettivi: contratto collettivo riguardante il personale dell’area dirigenziale della Regione autonoma Trentino-Alto Adige biennio economico 2004-2005 del 27 febbraio 2006, come modificato dal contratto collettivo area dirigenziale del 27 aprile 2009; contratto collettivo riguardante il personale dell’area non dirigenziale della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, quadriennio giuridico 2008-2011 e biennio economico 2008-2009 del 1° dicembre 2008; contratto collettivo intercompartimentale per il personale dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano relativo al periodo 1999-2000 del 17 luglio 2000; contratto di comparto per il personale dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano del 6 agosto 2001).

La Corte dei Conti inizialmente aveva cercato di disapplicare (poiché ritenute nulle) tali disposizioni contrattuali collettive negando la parificazione del bilancio alle partite di spesa inerenti alla corresponsione di indennità svincolate da qualsiasi prestazione di lavoro, nonché ai relativi oneri pensionistici a carico del datore di lavoro. La “politica” era tuttavia intervenuta emanando specifiche disposizioni di legge provinciale e regionale che avevano avuto l’effetto di “salvare” le predette norme contrattuali e garantirne l’efficacia anche nei confronti del giudice contabile il quale, infine, reagiva sollevando la sopra esposta questione di legittimità costituzionale.

L’operazione di salvataggio messa in campo dagli enti locali territoriali era stata considerata “scorretta” dalla Corte dei Conti la quale aveva altresì lamentato l’indebita interferenza con la funzione esercitata in sede di parificazione (artt. 101, secondo comma, e 103 Cost.) e l’illegittima retroattività della norma di interpretazione autentica contenuta nella legge prov. Bolzano n. 1 del 2018 in violazione dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, e art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

La decisione è di grande impatto dato che, a rigore, tutti i dipendenti pubblici che hanno avuto un mandato dirigenziale a partire dal 2009 (la prescrizione dell’indebito oggettivo è infatti di ben 10 anni) dovranno restituire tali indennità di dirigenza o di coordinamento. Si tratterebbe di circa 850 funzionari dell’amministrazione provinciale – fra cui un centinaio di dirigenti e oltre 700 fra vice direttori e coordinatori – e 250 dell’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano.

La vicenda lascia perplessi per una serie di ragioni.

Dato per scontato che la Corte Costituzionale non sia in errore dato che le sue decisioni giuridicamente non sono impugnabili od emendabili in alcun modo, rimane da capire perché tale “sistema retributivo” sia sopravvissuto per quasi trent’anni, perché gli organismi pubblici di rappresentanza negoziale ed i sindacati dei lavoratori / dei dirigenti abbiano sottoscritto contratti collettivi nulli per circa vent’anni, perché il Governo nazionale non abbia impugnato le norme di legge provinciale e regionale subito dopo la loro emanazione, perché la Corte dei Conti non sia intervenuta prima dato che le norme di legge in questione risalgono al 1992.

Si intende evidenziare che la Corte dei Conti ha iniziato a contestare la legittimità di tale sistema retributivo a partire dall’esercizio 2014 e non solo aveva dichiarato non regolari le poste di spesa concernenti il pagamento di dette indennità ai funzionari privi di incarico dirigenziale o di coordinamento ma la sezione giurisdizionale di Bolzano della Corte dei conti con sentenza n. 52 del 21-22 settembre 2017 (depositata il 15 dicembre 2017) aveva altresì pronunciato condanna a titolo di responsabilità amministrativa a carico dei funzionari che per conto della parte pubblica avevano stipulato i contratti collettivi in base ai quali erano stati disposti i pagamenti dal 1° giugno 2011 al 31 marzo 2016 oggetto di contestazione.

Tale vicenda appare inoltre emblematica in relazione ad una ulteriore questione e cioè quella della “resistenza” delle disposizioni di legge (non solo locale) che attribuiscono “privilegi” – o consentono l’assunzione di personale in violazione di norme costituzionali o dei principi fondamentali di riforma economico sociale stabiliti dal legislatore nazionale – : se l’amministrazione “toglie” violando la legge (o applicando una legge incostituzionale) è più facile reagire ed adire immediatamente il giudice (magari quello ordinario od amministrativo) perché il soggetto colpito dalla norma illegittima ha un interesse effettivo e diretto a rimuovere quest’ultima dall’ordinamento; quando l’amministrazione, emanando norme incostituzionali, “dà”, la reazione del “sistema” appare molto più complicata e lenta dato che (evidentemente) l’ente erogante e i soggetti beneficiati non hanno alcun interesse “concreto” ad impugnare tali norme mentre la “generalità dei consociati” (i comuni cittadini) che da un tale assetto normativo ricevono un danno indiretto (la moltiplicazione ingiustificata della spesa pubblica) non possano adire immediatamente l’autorità giudiziaria difettando loro l’interesse “formale” ad agire.Forse la categoria dell’“interesse ad agire” andrebbe ripensata e dovrebbe essere consentito ad una platea più estesa di soggetti (non solo quelli istituzionali come il Governo o la Corte dei Conti) di adire l’autorità giudiziaria (ordinaria od amministrativa) affinché quest’ultima possa subito sollevare questioni di legittimità costituzionale in relazione a tale tipologia di norme per c.d. “di favore”. Un controllo diffuso sarebbe più efficiente e, probabilmente, se fosse stato in vigore all’epoca dei fatti, non si sarebbero dovuti aspettare trent’anni per espungere dall’ordinamento un sistema retributivo (stabilito da norma di contrattazione collettiva e “garantito” da norme di legge provinciale e regionale) costituzionalmente illegittimo.

Sentenza Corte Costituzionale n. 138 del 2019

I contratti “d’opera” nell’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano come rimedio (illegittimo) all’inefficienza della proporzionale linguistica

Con sentenza n. 251 del 24.11.2016 il Tribunale di Bolzano Sezione Lavoro ha riconosciuto la subordinazione nell’ambito di plurimi rapporti di lavoro nominalmente “autonomi” posti in essere tra un medico veterinario e l’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano nonché ha dichiarato l’illegittimità delle clausole appositive del termine condannando l’ente pubblico al risarcimento del c.d. “danno comunitario” ed al pagamento di differenze retributive connesse al riconoscimento della subordinazione (in special modo del trattamento di fine rapporto).
La pronuncia del Tribunale di Bolzano si segnala non solo per il lucido ed attento esame degli elementi documentali e delle risultanze istruttorie che hanno condotto alla declaratoria della subordinazione nonché per l’approfondita analisi della disciplina nazionale e comunitaria in materia di rapporti a termine alle dipendenze delle pubbliche amministrazione e delle conseguenze (apparentemente solo indennitarie) in caso di sua violazione, ma soprattutto per aver chiarito che la “cronica e storica” carenza di personale medico ed in generale sanitario in Azienda – a sua volta dipendente dalla mancanza di candidati in possesso del requisito del bilinguismo o dalla carenza di candidati appartenenti al gruppo linguistico in favore del quale sono riservati i posti messi a concorso – e, quindi, una situazione costante e non eccezionale di scopertura di organico, per così dire immanente al sistema di reclutamento del personale secondo i principi della proporzionale e del bilinguismo, imposti dallo Statuto di Autonomia e cioè dal D.P.R. 752/1976, non possono giustificare il ricorso né a contratti di lavoro autonomo fasulli né tantomeno a contratti di lavoro a tempo determinato.
In sostanza le inefficienze della proporzionale linguistica (il bilinguismo nel caso di specie non rileva poiché il medico veterinario in questione era dotato del c.d. patentino A) non possono essere “tamponate” attraverso il ricorso ad istituti del diritto del lavoro e non (in particolare i contratto d’opera / i contratti di collaborazione continuativa personale / i contratti a termine / la precettazione) snaturandone scopi e contenuti.

Sentenza Tribunale di Bolzano 24.11.2016

La ricusazione del Giudice nel Rito Fornero

Con ordinanza del 22.12.2014 pubblicata il 27.12.2014 il Tribunale di Bolzano aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale non sussiste l’obbligo di astensione per l’organo giudicante, inteso come persona fisica, investito del giudizio di opposizione ex art. 51, comma 1, L. n. 92 del 2012 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49, L. n. 92 del 2012.
Per il Tribunale di Bolzano il Magistrato che ha deciso il giudizio in esito alla c.d. “prima fase” sommaria del Rito Fornero può anche decidere il giudizio relativo all’opposizione e cioè alla “seconda fase” a cognizione piena.
Altri giudice di merito hanno deciso in senso conforme; si tratta del Tribunale di Palermo, con ordinanza del 28 gennaio 2013,  del Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 25 marzo 2013, del Tribunale di Piacenza, con ordinanza del 12 novembre 2012, del Tribunale di Milano, con ordinanza del 19 giugno 2013.
Secondo il Tribunale di Bolzano le due “fasi” del Rito Fornero «si distinguono per la limitazione agli atti istruttori indispensabili della prima fase ovvero per la pienezza dell’istruttoria della seconda fase. Solamente la seconda fase del procedimento viene definita con sentenza di primo grado, suscettibile di impugnazione in appello, e dunque soggetta ad “altro grado del processo”.
La mera fase di opposizione in primo grado non costituisce altro grado di giudizio in senso tecnico, davanti ad altro giudice. Ed invero, la disciplina, del procedimento delineato dalla L. cit. per la trattazione delle cause in tema di licenziamento, che richiedono pronta spedizione, prevede una struttura bifasica, che consente una prima rapida decisione basata su una istruttoria sommaria, ma non contiene alcuna esplicita previsione che stabilisca che il giudizio di opposizione, che prevede il completamento dell’istruttoria, debba svolgersi dinanzi ad altro e diverso giudice rispetto a quello che ha trattato la prima fase.
Non vi è alcuna esplicita previsione di incompatibilità tra il giudice della prima fase sommaria e della seconda fase di giudizio a cognizione piena di primo grado, come del resto non è prevista alcuna incompatibilità in altri procedimenti a struttura bifasica in primo grado previsti nel nostro ordinamento, quali a titolo di esempio l’opposizione a decreto ingiuntivo, ma anche l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., la revocazione ex art. 395 c.p.c., l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., come rilevato dal Giudice ricusato, che ha inoltre correttamente segnalato che quando il legislatore, in materia civile, ha voluto prevedere eccezioni le ha espressamente enunciate, come nel caso del reclamo cautelare ex art. 669 terdecies, comma 2, c.p.c. ed altri casi specifici.
Quanto esposto conferma che non pare potersi fare luogo all’applicazione estensiva della disposizione ex art. 51, comma 1 n, 4 c.p.c. richiesta da parte ricorrente, in assenza di esplicita previsione normativa.
Va pertanto escluso, sulla base del dato letterale e della interpretazione sistematica della disciplina dettata dalla legge n. 92/2012 art. 1 commi da 47 a 57, da un lato, e della natura di norma di stretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 51, comma 1, c.p.c. e delle ipotesi in essa tassativamente previste, in particolare anche nell’art 51, comma 1 n. 4, c.p.c. specificamente richiamato dalla ricorrente, per l’astensione obbligatoria dall’altro, la sussistenza, nel caso di specie, dell’obbligo di astensione in capo al Giudice assegnatario del procedimento de quo».
Si rammenta che la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1577 del 13 dicembre 2013, aveva invece dichiarato la nullità della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Milano nella persona dello stesso giudice che aveva già pronunciato l’ordinanza di chiusura della prima fase del giudizio ex art. art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012.
Successivamente il Tribunale di Milano, Sezione X, con ordinanza del 14 marzo 2014, si è pronunciato in merito alla richiesta di ricusazione del Magistrato che, dopo aver deciso il ricorso ex art. 1, comma 48, L. 92 del 2012 emettendo ordinanza di rigetto, è stato chiamato a decidere sulla relativa opposizione, ed ha accolto l’istanza di ricusazione sostituendo il giudice ricusato con altro magistrato successivo in ordine di anzianità.
Dopo la sentenza della Corte d’Appello di Milano il Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano per superare l’evidente impasse rimetteva, quindi, un nuovo fascicolo avente ad oggetto la medesima questione alla Presidente del Tribunale che, con provvedimento del 15 novembre 2013, assegnava il procedimento alla Sezione IX Civile.
Con ordinanza del 27 gennaio 2014 il Tribunale Milano, Sezione IX, ha quindi rimesso gli atti alla Consulta ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. e 1, comma 51, L. n. 92 del 2012 nella parte in cui non prevedono l’obbligo di astensione per il Magistrato investito del giudizio di opposizione che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49, l. 92/2012, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
Evidenzia il Collegio come sia necessario «prospettare la questione di incostituzionalità delle suddette norme tenuto conto, comunque, del rilievo che possono assumere i diversi esiti interpretativi cui è giunta la Corte d’appello di Milano nella sentenza n.1577/2013 e i concreti riflessi ordinamentali e organizzativi che ne derivano nella gestione del processo del lavoro, per violazione degli artt. 3, 24, 111 della Costituzione. In tale prospettiva può ipotizzarsi che il fatto che il rito qui esaminato sia diverso, strutturalmente e funzionalmente, dal rito disegnato nell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, in quanto assimilabile ai procedimenti bifasici, non esclude che, in questa fattispecie, la previsione di un «giudice persona fisica unico» si ponga in contrasto con la Carta Costituzionale. La particolare struttura procedimentale, introdotta dalla l. 92/12, pur mirando a costituire un procedimento scandito da due fasi – di cui una urgente e sommaria e l’altra di piena cognizione – pur non istituendo, in senso tecnico, un “grado” di giudizio, mette mano, di fatto, a una volta processuale in cui la seconda delle fasi può assume valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».
La pubblica udienza innanzi alla Corte Costituzionale è stata fissata per il prossimo 28 aprile 2015; il relatore designato è il Dott. Mario Rosario Morelli.

Ordinanza Tribunale Bolzano 22.12.2014

La legge delega sulla riforma della disciplina dei licenziamenti

Dopo un curioso dibattito che ha visto protagonisti non due contrapposti partiti politici o schieramenti di partiti ma sostanzialmente la c.d. “minoranza” del partito di centro sinistra con SEL e Movimento Cinque Stelle – favorevoli al mantenimento delle tutele attuali – ed il resto dello schieramento parlamentare – evidentemente convinto che una maggiore flessibilità in uscita rappresenti uno strumento necessario per favorire la ripresa del paese -, il Governo, facendo propria una battaglia storica del centro destra e cioè quella per il superamento dello Statuto dei Lavoratori, ricorrendo per l’ennesima volta (la 32esima) alla fiducia e quindi incassando non solo i voti degli alleati (compresa SVP) ma anche quelli della stessa “minoranza” del PD (con l’eccezione del senatore Corradino Mineo) che inizialmente aveva osteggiato l’iniziativa del Presidente del Consiglio e del Ministro del Lavoro, ottiene al Senato con 166 voti favorevoli, 112 contrari ed un astenuto l’approvazione della L. n. 183 del 2014, la c.d. Legge Delega sul Jobs Act.
Tale iniziativa, a soli due anni dal varo della c.d. Legge Fornero (L. n. 92 del 2012) che già aveva eliminato il principio della generale applicabilità nelle grandi imprese della reintegrazione quale sanzione civile in caso di licenziamento illegittimo, stupisce per molte ragioni:
– da un lato interviene quando gli effetti della citata riforma del 2012 non sono ancora chiari e ben ponderati (la L. n. 92 del 2012, modificando l’art. 18 della L. n. 300 del 1970 ha contribuito ad aumentare l’occupazione?);
– interviene in un periodi di forte crisi occupazionale e cioè in un momento storico in cui chi non ha lavoro non lo trova e chi ce l’ha ha paura di perderlo; rendere più facili i licenziamenti, in assenza di chiari segnali di ripresa economica, non può che aumentare il senso di generale insicurezza e quindi, paradossalmente, condurre ad un effetto contrario rispetto a quello auspicato e cioè la ripresa economica;
– la riforma della disciplina sui licenziamenti non è affidata al Parlamento (come è sempre accaduto in passato; in primis L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970, L. n. 108 del 1990, L. n. 92 del 2012) bensì al Governo che potrà emanare più decreti legislativi;
– dopo la totale liberalizzazione dei contratti a termine (che a quanto pare non ha affatto avuto l’effetto di aumentare l’occupazione ma come era prevedibile di produrre una sostituzione tra contratti a termine e a tempo indeterminato; così Tito Boeri) la legge delega rappresenta una evidente conferma della volontà del Governo di proseguire nel senso dello smantellamento delle tutele nel rapporto senza tuttavia offrire – in considerazione della permanente penuria di risorse economiche – una valida protezione economica fuori da esso e cioè nel mercato;
– le riforme che hanno “colpito” il mondo del lavoro nel corso del 2014 e che conducono chiaramente ad un progressivo depauperamento dei diritti per la generalità dei lavoratori italiani (la legge delega non pare abbia infatti la pretesa di estendere alcun diritto ai c.d. lavoratori precari ma si limita per il momento a ridurre le tutele di coloro che già le hanno o le avrebbero) costituiscono un obbiettivo di primaria importanza per il Governo ed evidentemente superano nell’agenda politica la riforma elettorale, la legge anti-corruzione, la riforma fiscale e quella della Pubblica Amministrazione.
Il Consiglio dei Ministri avrà sei mesi di tempo per emanare una serie di decreti legislativi finalizzati:
1) al riordino degli ammortizzatori sociali (art. 1, commi 1 e 2);
2) al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive e la costituzione di una apposita “Agenzia Nazionale per l’Occupazione” (art. 1, commi 3 e 4);
3) alla semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese (art. 1, commi 5 e 6);
4) alla redazione di un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro e a rendere più efficiente l’attività ispettiva – tra l’altro con la costituzione di una nuova “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro” – (art. 1, comma 7);
5) alla revisione e aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (art. 1, commi 8 e 9).
Per quanto riguarda in particolare la disciplina dei licenziamenti l’art. 1, comma 7 prevede che lo scopo della riforma sarebbe quello di “rafforzare le opportunità̀ di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché́ di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale”.
La riforma quindi nelle stesse intenzioni del Governo non mira a creare “occupazione stabile” ma semplici “opportunità di ingresso nel mondo del lavoro”; si tratta quindi di una aspirazione minima: consentire agli inoccupati (principalmente giovani) ed ai disoccupati di mettere o rimettere un piede nel mondo del lavoro senza aspettarsi molto di più.
La lettera c) del medesimo comma 7 impone la: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità̀ di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità̀ di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché́ prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
In sostanza gli aspetti fondamentali della riforma saranno i seguenti:
a)    applicabilità solo ai neo assunti;
b)    tendenziale applicabilità della nuova disciplina anche ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni;
c)    introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: i lavoratori ingiustamente licenziati avranno diritto ad un indennizzo superiore se potranno vantare una maggiore anzianità di servizio; ciò significa che il datore di lavoro potrà licenziare con estrema facilità i propri dipendenti (in particolare i neoassunti) anche se non sussiste alcun motivo economico o se i lavoratori interessati non hanno commesso alcuna grave mancanza;
d)    è esclusa in assoluto la reintegrazione in caso di licenziamenti comminati per giustificato motivo oggettivo;
e)    il diritto alla reintegrazione è limitato a casi tassativi (solo in caso di licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato).
Tale disciplina per quanto abbozzata pone già degli inquietanti interrogativi:
1)    non si comprende in primo luogo se il contratto di lavoro a tempo indeterminato a “tutele crescenti” avrà effettivamente una portata generale e quindi se alla nuova disciplina in materia di licenziamenti saranno soggetti tutti i datori di lavoro e quindi anche le piccole imprese (cioè quelle per le quali fino ad oggi trovava applicazione la L. n. 604 del 1966); la latitudine della disposizione potrebbe autorizzare una tale interpretazione;
2)    all’indomani della pubblicazione della L. n. 183 del 2014, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sostenuto che la legge delega non riguarda il Pubblico Impiego; in realtà la legge non prevede alcuna esclusione (così Pietro Ichino, uno dei principali fautori del contratto a tutele crescenti); tali affermazioni incrementano quindi i dubbi circa l’effettiva portata della disciplina; dubbi che peraltro riguardano anche la disciplina legislativa in vigore (ancora oggi non è chiaro se la disciplina sostanziale in materia di licenziamenti individuali introdotta dalla Legge Fornero si applichi o meno ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni);
3)    la norma comporta un primo grave vulnus al principio di razionalità; se la legge esclude la reintegrazione in modo assoluto solo in caso di licenziamento economico, ogni datore di lavoro che sia minimamente scaltro sarà indotto a licenziare formalmente i propri dipendenti sempre e solo per tale causale seppur assolutamente infondata; un errore che la Legge Fornero aveva saputo evitare poiché riconosceva il diritto alla reintegrazione anche nell’ipotesi in cui il giudice avesse accertato la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; pare evidente quindi la violazione dell’art. 3 Cost.;
4)    infine non pochi dubbi di legittimità costituzionale pongono anche la disciplina circa le modalità concrete con cui tale riforma dovrebbe entrare a regime; all’indomani della sua entrata in vigore infatti nella medesima azienda saranno presenti lavoratori di serie A (che godranno delle tutele stabilite dalla disciplina attuale) e lavoratori di serie B (che potranno contare su garanzie incomparabilmente inferiori); anche in questo caso il datore di lavoro sarà indotto a licenziare non in base a criteri oggettivi bensì tenderà a liberarsi del lavoratore che ha meno chance di ricorrere all’autorità giudiziaria ed ottenere un risarcimento elevato; è chiara la disparità di trattamento e l’effetto che la legge avrà almeno nella fase di prima applicazione sull’efficienza complessiva del sistema;
5)    non si comprende cosa intenda il legislatore per “termini certi per l’impugnazione del licenziamento”; come è noto la L. n. 604 del 1966 e la L. n. 183 del 2010 nonché la L. n. 92 del 2012 impongo tempi più che “certi”, anzi “serrati” per impugnare il licenziamento prevedendo doppie – se non triple – decadenze (impugnazione stragiudiziale, ricorso agli organismi di conciliazione, ricorso all’autorità giudiziaria) e tempi rapidi di istruzione e definizione del processo con un rito apposito;
6)    non si comprende per quale ragione la delega al Governo non preveda chiaramente un principio di contestualità tra superamento dei c.d. contratti flessibili e la nuova disciplina dei licenziamenti; nulla vieterebbe al Governo di porre mano alla sola disciplina dei licenziamenti rendendoli più “facili” e di mantenere, facendo scadere la delega, tutte le forme contrattuali che hanno introdotto il c.d. lavoro precario; si tratta di un timore non infondato dato che la legge, da un lato, reca una sostanziale delega “in bianco” in merito a quest’ultimo profilo (l’art. 1, comma 7, lett. a) prevede molto genericamente che il Governo proceda ad “interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”) consentendo all’esecutivo anche interventi di semplice maquillage, dall’altro, contraddicendo l’indicazione circa un “superamento” e pertanto l’abolizione di tali tipologie contrattuali, prevede espressamente all’art. 1, comma 7, lett. h) l’estensione dell’ambito di applicazione, del c.d. “lavoro accessorio” (dall’art. 70 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276) per le attività̀ lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi.
Occorre inoltre segnalare che la legge delega consente al Governo di riformare altri due fondamentali quanto delicati istituti oggi disciplinati dallo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300 del 1970) quello delle mansioni e dei controlli a distanza.
Sotto il primo profilo l’esecutivo potrà procedere ad una revisione della disciplina delle mansioni consentendo sostanzialmente al datore di lavoro in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale di de-mansionare il proprio dipendente; fino ad oggi la legge (cfr. art. 2013 c.c. come modificato dall’art. 13 della L. n. 300 del 1970) vietava al datore di lavoro di adibire i propri dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali erano stati assunti o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avessero successivamente acquisito; la legge stabiliva inoltra espressamente il diritto al mantenimento della retribuzione in caso di adibizione a mansioni equivalenti; tali principi saranno pesantemente intaccati dato che, da un lato, verrà chiaramente meno il principio di intangibilità in pejus delle mansioni dall’altro i limiti allo ius variandi verranno in futuro affidati non solo alla legge ma anche alla contrattazione collettiva compresa quella aziendale e di secondo livello.
Anche la norma sulla revisione dei controlli a distanza (disciplina oggi contenuto all’art. 4 L. n. 300 del 1970) appare una delega in bianco dato che in realtà non fornisce al legislatore delegato alcun chiaro principio o criterio direttivo. È evidente comunque che il senso della norma è quello di consentire al Governo di ampliare il potere di controllo del datore di lavoro sui propri dipendenti autorizzando il primo di utilizzare con maggiore libertà nuovi (e vecchi) strumenti tecnologici.

L. n. 183 del 2014

Legge antipedofilia

Con il D.Lgs. n. 39 del 2014 il Legislatore italiano ha provveduto alla trasposizione nell’ordinamento nazionale dellart. 10, comma 2 della Direttiva 2011/93/UE che reca norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in materia di abuso e sfruttamento sessuale dei minori, pornografia minorile ed adescamento di minori per scopi sessuali nonchè misure intese a rafforzare la prevenzione di tali reati e la protezione delle vittime.

In particolare il D.Lgs. n. 39 del 2014 non solo prevede una serie di aumenti di pena e aggravanti in relazione ai reati già previsti e puniti dal Codice Penale (articoli 600-bis, Prostituzione minorile, 600-ter, Pornografia minorile, 600-quater, Detenzione di materiale pornografico, 600-quater.1, Pornografia virtuale, 600-quinquies, Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, 609-bis, Violenza sessuale, 609-quinquies, Corruzione di minorenne, 609-undecies Adescamento di minorenni) ma, aggiungendo l’art. 25-bis nel Testo unico del Casellario Giudiziale, obbliga il “soggetto” che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, a richiedere il certificato penale del casellario giudiziale al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies del codice penale, ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori. La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra € 10.000,00- ed € 15.000,00-.

La disposizione pone una serie di gravi questioni interpretative.

La prima riguarda lindividuazione dei soggetti tenuti all’adempimento. Ad esempio la norma parrebbe ricomprendere anche i genitori che intendano assumere baby sitter per i propri figli. L’obbligo non dovrebbe invece trovare applicazione in relazione al personale già in forze al momento dell’entrata in vigore della norma.

La legge non prevede alcuna conseguenza sul rapporto di lavoro nel caso in cui il soggetto, pur avendo richiesto e quindi visionato il certificato penale, constatata l’esistenza di una delle condanne indicate dalla norma ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive, proceda comunque all’assunzione / impiego del pregiudicato.

Dubbi che la circolare del Ministero della Giustizia del 3.4.2014 non pare abbia in alcun modo chiarito.

D.Lgs. n. 39 del 2014

Circolare Ministero Giustizia 3.4.2014