Dopo un curioso dibattito che ha visto protagonisti non due contrapposti partiti politici o schieramenti di partiti ma sostanzialmente la c.d. “minoranza” del partito di centro sinistra con SEL e Movimento Cinque Stelle – favorevoli al mantenimento delle tutele attuali – ed il resto dello schieramento parlamentare – evidentemente convinto che una maggiore flessibilità in uscita rappresenti uno strumento necessario per favorire la ripresa del paese -, il Governo, facendo propria una battaglia storica del centro destra e cioè quella per il superamento dello Statuto dei Lavoratori, ricorrendo per l’ennesima volta (la 32esima) alla fiducia e quindi incassando non solo i voti degli alleati (compresa SVP) ma anche quelli della stessa “minoranza” del PD (con l’eccezione del senatore Corradino Mineo) che inizialmente aveva osteggiato l’iniziativa del Presidente del Consiglio e del Ministro del Lavoro, ottiene al Senato con 166 voti favorevoli, 112 contrari ed un astenuto l’approvazione della L. n. 183 del 2014, la c.d. Legge Delega sul Jobs Act.
Tale iniziativa, a soli due anni dal varo della c.d. Legge Fornero (L. n. 92 del 2012) che già aveva eliminato il principio della generale applicabilità nelle grandi imprese della reintegrazione quale sanzione civile in caso di licenziamento illegittimo, stupisce per molte ragioni:
– da un lato interviene quando gli effetti della citata riforma del 2012 non sono ancora chiari e ben ponderati (la L. n. 92 del 2012, modificando l’art. 18 della L. n. 300 del 1970 ha contribuito ad aumentare l’occupazione?);
– interviene in un periodi di forte crisi occupazionale e cioè in un momento storico in cui chi non ha lavoro non lo trova e chi ce l’ha ha paura di perderlo; rendere più facili i licenziamenti, in assenza di chiari segnali di ripresa economica, non può che aumentare il senso di generale insicurezza e quindi, paradossalmente, condurre ad un effetto contrario rispetto a quello auspicato e cioè la ripresa economica;
– la riforma della disciplina sui licenziamenti non è affidata al Parlamento (come è sempre accaduto in passato; in primis L. n. 604 del 1966, L. n. 300 del 1970, L. n. 108 del 1990, L. n. 92 del 2012) bensì al Governo che potrà emanare più decreti legislativi;
– dopo la totale liberalizzazione dei contratti a termine (che a quanto pare non ha affatto avuto l’effetto di aumentare l’occupazione ma come era prevedibile di produrre una sostituzione tra contratti a termine e a tempo indeterminato; così Tito Boeri) la legge delega rappresenta una evidente conferma della volontà del Governo di proseguire nel senso dello smantellamento delle tutele nel rapporto senza tuttavia offrire – in considerazione della permanente penuria di risorse economiche – una valida protezione economica fuori da esso e cioè nel mercato;
– le riforme che hanno “colpito” il mondo del lavoro nel corso del 2014 e che conducono chiaramente ad un progressivo depauperamento dei diritti per la generalità dei lavoratori italiani (la legge delega non pare abbia infatti la pretesa di estendere alcun diritto ai c.d. lavoratori precari ma si limita per il momento a ridurre le tutele di coloro che già le hanno o le avrebbero) costituiscono un obbiettivo di primaria importanza per il Governo ed evidentemente superano nell’agenda politica la riforma elettorale, la legge anti-corruzione, la riforma fiscale e quella della Pubblica Amministrazione.
Il Consiglio dei Ministri avrà sei mesi di tempo per emanare una serie di decreti legislativi finalizzati:
1) al riordino degli ammortizzatori sociali (art. 1, commi 1 e 2);
2) al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive e la costituzione di una apposita “Agenzia Nazionale per l’Occupazione” (art. 1, commi 3 e 4);
3) alla semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese (art. 1, commi 5 e 6);
4) alla redazione di un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro e a rendere più efficiente l’attività ispettiva – tra l’altro con la costituzione di una nuova “Agenzia unica per le ispezioni del lavoro” – (art. 1, comma 7);
5) alla revisione e aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (art. 1, commi 8 e 9).
Per quanto riguarda in particolare la disciplina dei licenziamenti l’art. 1, comma 7 prevede che lo scopo della riforma sarebbe quello di “rafforzare le opportunità̀ di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché́ di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale”.
La riforma quindi nelle stesse intenzioni del Governo non mira a creare “occupazione stabile” ma semplici “opportunità di ingresso nel mondo del lavoro”; si tratta quindi di una aspirazione minima: consentire agli inoccupati (principalmente giovani) ed ai disoccupati di mettere o rimettere un piede nel mondo del lavoro senza aspettarsi molto di più.
La lettera c) del medesimo comma 7 impone la: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità̀ di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità̀ di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché́ prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
In sostanza gli aspetti fondamentali della riforma saranno i seguenti:
a) applicabilità solo ai neo assunti;
b) tendenziale applicabilità della nuova disciplina anche ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni;
c) introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: i lavoratori ingiustamente licenziati avranno diritto ad un indennizzo superiore se potranno vantare una maggiore anzianità di servizio; ciò significa che il datore di lavoro potrà licenziare con estrema facilità i propri dipendenti (in particolare i neoassunti) anche se non sussiste alcun motivo economico o se i lavoratori interessati non hanno commesso alcuna grave mancanza;
d) è esclusa in assoluto la reintegrazione in caso di licenziamenti comminati per giustificato motivo oggettivo;
e) il diritto alla reintegrazione è limitato a casi tassativi (solo in caso di licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato).
Tale disciplina per quanto abbozzata pone già degli inquietanti interrogativi:
1) non si comprende in primo luogo se il contratto di lavoro a tempo indeterminato a “tutele crescenti” avrà effettivamente una portata generale e quindi se alla nuova disciplina in materia di licenziamenti saranno soggetti tutti i datori di lavoro e quindi anche le piccole imprese (cioè quelle per le quali fino ad oggi trovava applicazione la L. n. 604 del 1966); la latitudine della disposizione potrebbe autorizzare una tale interpretazione;
2) all’indomani della pubblicazione della L. n. 183 del 2014, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sostenuto che la legge delega non riguarda il Pubblico Impiego; in realtà la legge non prevede alcuna esclusione (così Pietro Ichino, uno dei principali fautori del contratto a tutele crescenti); tali affermazioni incrementano quindi i dubbi circa l’effettiva portata della disciplina; dubbi che peraltro riguardano anche la disciplina legislativa in vigore (ancora oggi non è chiaro se la disciplina sostanziale in materia di licenziamenti individuali introdotta dalla Legge Fornero si applichi o meno ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni);
3) la norma comporta un primo grave vulnus al principio di razionalità; se la legge esclude la reintegrazione in modo assoluto solo in caso di licenziamento economico, ogni datore di lavoro che sia minimamente scaltro sarà indotto a licenziare formalmente i propri dipendenti sempre e solo per tale causale seppur assolutamente infondata; un errore che la Legge Fornero aveva saputo evitare poiché riconosceva il diritto alla reintegrazione anche nell’ipotesi in cui il giudice avesse accertato la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; pare evidente quindi la violazione dell’art. 3 Cost.;
4) infine non pochi dubbi di legittimità costituzionale pongono anche la disciplina circa le modalità concrete con cui tale riforma dovrebbe entrare a regime; all’indomani della sua entrata in vigore infatti nella medesima azienda saranno presenti lavoratori di serie A (che godranno delle tutele stabilite dalla disciplina attuale) e lavoratori di serie B (che potranno contare su garanzie incomparabilmente inferiori); anche in questo caso il datore di lavoro sarà indotto a licenziare non in base a criteri oggettivi bensì tenderà a liberarsi del lavoratore che ha meno chance di ricorrere all’autorità giudiziaria ed ottenere un risarcimento elevato; è chiara la disparità di trattamento e l’effetto che la legge avrà almeno nella fase di prima applicazione sull’efficienza complessiva del sistema;
5) non si comprende cosa intenda il legislatore per “termini certi per l’impugnazione del licenziamento”; come è noto la L. n. 604 del 1966 e la L. n. 183 del 2010 nonché la L. n. 92 del 2012 impongo tempi più che “certi”, anzi “serrati” per impugnare il licenziamento prevedendo doppie – se non triple – decadenze (impugnazione stragiudiziale, ricorso agli organismi di conciliazione, ricorso all’autorità giudiziaria) e tempi rapidi di istruzione e definizione del processo con un rito apposito;
6) non si comprende per quale ragione la delega al Governo non preveda chiaramente un principio di contestualità tra superamento dei c.d. contratti flessibili e la nuova disciplina dei licenziamenti; nulla vieterebbe al Governo di porre mano alla sola disciplina dei licenziamenti rendendoli più “facili” e di mantenere, facendo scadere la delega, tutte le forme contrattuali che hanno introdotto il c.d. lavoro precario; si tratta di un timore non infondato dato che la legge, da un lato, reca una sostanziale delega “in bianco” in merito a quest’ultimo profilo (l’art. 1, comma 7, lett. a) prevede molto genericamente che il Governo proceda ad “interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”) consentendo all’esecutivo anche interventi di semplice maquillage, dall’altro, contraddicendo l’indicazione circa un “superamento” e pertanto l’abolizione di tali tipologie contrattuali, prevede espressamente all’art. 1, comma 7, lett. h) l’estensione dell’ambito di applicazione, del c.d. “lavoro accessorio” (dall’art. 70 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276) per le attività̀ lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi.
Occorre inoltre segnalare che la legge delega consente al Governo di riformare altri due fondamentali quanto delicati istituti oggi disciplinati dallo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300 del 1970) quello delle mansioni e dei controlli a distanza.
Sotto il primo profilo l’esecutivo potrà procedere ad una revisione della disciplina delle mansioni consentendo sostanzialmente al datore di lavoro in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale di de-mansionare il proprio dipendente; fino ad oggi la legge (cfr. art. 2013 c.c. come modificato dall’art. 13 della L. n. 300 del 1970) vietava al datore di lavoro di adibire i propri dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali erano stati assunti o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che avessero successivamente acquisito; la legge stabiliva inoltra espressamente il diritto al mantenimento della retribuzione in caso di adibizione a mansioni equivalenti; tali principi saranno pesantemente intaccati dato che, da un lato, verrà chiaramente meno il principio di intangibilità in pejus delle mansioni dall’altro i limiti allo ius variandi verranno in futuro affidati non solo alla legge ma anche alla contrattazione collettiva compresa quella aziendale e di secondo livello.
Anche la norma sulla revisione dei controlli a distanza (disciplina oggi contenuto all’art. 4 L. n. 300 del 1970) appare una delega in bianco dato che in realtà non fornisce al legislatore delegato alcun chiaro principio o criterio direttivo. È evidente comunque che il senso della norma è quello di consentire al Governo di ampliare il potere di controllo del datore di lavoro sui propri dipendenti autorizzando il primo di utilizzare con maggiore libertà nuovi (e vecchi) strumenti tecnologici.