La sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2019 sulle indennità dei dirigenti pubblici locali e la “resistenza” delle norme legali e contrattuali “di favore”

Con la sentenza n. 138 del 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 81 e 117, comma 2, lett. l) e o), Cost., degli artt. 1, comma 3, 2 e 17, comma 2, della legge prov. Bolzano n. 9 del 2017, dell’art. 1 della legge prov. Bolzano n. 1 del 2018 e dell’art. 4, commi 1, terzo periodo, e 3 della legge reg. Trentino-Alto Adige n. 11 del 2017, nella parte in cui hanno consentito ai dirigenti dei predetti enti territoriali (Provincia Autonoma di Bolzano e Regione Trentino Alto Adige) di conservare, come assegno personale, indennità di direzione e coordinamento a vario titolo percepite dopo la cessazione dei relativi incarichi, poiché dette previsioni hanno inciso su due materie di competenza esclusiva statale, quali l’ordinamento civile e la previdenza sociale, determinando una lesione diretta dei principi posti a tutela dell’equilibrio del bilancio e della copertura della spesa presidiati dall’art. 81 Cost..

La relativa questione di legittimità costituzionale non è stata sollevata da un ente istituzionale o da un giudice ordinario ma dalla Corte dei Conti, sezioni riunite per la Regione Trentino-Alto Adige, nel corso di due giudizi di parificazione per l’esercizio finanziario 2017 dei rendiconti generali della Provincia autonoma di Bolzano e della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol.

La Corte Costituzionale rammenta nella propria motivazione che le disposizioni di leggi provinciali e regionali dichiarate costituzionalmente illegittime hanno consentito ai dirigenti dei predetti enti territoriali di conservare, a partire dal lontano 1992, come assegno personale e pensionabile, indennità di direzione e coordinamento a vario titolo percepite anche dopo la cessazione dei relativi incarichi.

Inutile dire che tali norme hanno inciso sulla spesa pubblica, determinandone un effetto espansivo e, alterando la consistenza del risultato di amministrazione, hanno incrementato indebitamente le poste passive del bilancio.

La vicenda non interessa solo norme di legge provinciali ma in realtà parte dalla disapplicazione, operata, sempre dalla Corte dei Conti – secondo il combinato disposto degli artt. 7, comma 5, e 2, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 2, comma 1, lettera o), della L. 23 ottobre 1992, n. 421 – di una serie di disposizioni contrattuali collettive che nel corso di due decenni avevano cristallizzato tale meccanismo.

Ed infatti, dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, l’erogazione delle indennità di dirigenza, in assenza di espletamento del corrispondente incarico, era stata prevista con diverse, ma teleologicamente equivalenti, norme contenute in contratti collettivi regionali e provinciali a partire dal 1999 (trattasi in particolare dei seguenti contratti collettivi: contratto collettivo riguardante il personale dell’area dirigenziale della Regione autonoma Trentino-Alto Adige biennio economico 2004-2005 del 27 febbraio 2006, come modificato dal contratto collettivo area dirigenziale del 27 aprile 2009; contratto collettivo riguardante il personale dell’area non dirigenziale della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, quadriennio giuridico 2008-2011 e biennio economico 2008-2009 del 1° dicembre 2008; contratto collettivo intercompartimentale per il personale dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano relativo al periodo 1999-2000 del 17 luglio 2000; contratto di comparto per il personale dirigenziale della Provincia autonoma di Bolzano del 6 agosto 2001).

La Corte dei Conti inizialmente aveva cercato di disapplicare (poiché ritenute nulle) tali disposizioni contrattuali collettive negando la parificazione del bilancio alle partite di spesa inerenti alla corresponsione di indennità svincolate da qualsiasi prestazione di lavoro, nonché ai relativi oneri pensionistici a carico del datore di lavoro. La “politica” era tuttavia intervenuta emanando specifiche disposizioni di legge provinciale e regionale che avevano avuto l’effetto di “salvare” le predette norme contrattuali e garantirne l’efficacia anche nei confronti del giudice contabile il quale, infine, reagiva sollevando la sopra esposta questione di legittimità costituzionale.

L’operazione di salvataggio messa in campo dagli enti locali territoriali era stata considerata “scorretta” dalla Corte dei Conti la quale aveva altresì lamentato l’indebita interferenza con la funzione esercitata in sede di parificazione (artt. 101, secondo comma, e 103 Cost.) e l’illegittima retroattività della norma di interpretazione autentica contenuta nella legge prov. Bolzano n. 1 del 2018 in violazione dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, e art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

La decisione è di grande impatto dato che, a rigore, tutti i dipendenti pubblici che hanno avuto un mandato dirigenziale a partire dal 2009 (la prescrizione dell’indebito oggettivo è infatti di ben 10 anni) dovranno restituire tali indennità di dirigenza o di coordinamento. Si tratterebbe di circa 850 funzionari dell’amministrazione provinciale – fra cui un centinaio di dirigenti e oltre 700 fra vice direttori e coordinatori – e 250 dell’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano.

La vicenda lascia perplessi per una serie di ragioni.

Dato per scontato che la Corte Costituzionale non sia in errore dato che le sue decisioni giuridicamente non sono impugnabili od emendabili in alcun modo, rimane da capire perché tale “sistema retributivo” sia sopravvissuto per quasi trent’anni, perché gli organismi pubblici di rappresentanza negoziale ed i sindacati dei lavoratori / dei dirigenti abbiano sottoscritto contratti collettivi nulli per circa vent’anni, perché il Governo nazionale non abbia impugnato le norme di legge provinciale e regionale subito dopo la loro emanazione, perché la Corte dei Conti non sia intervenuta prima dato che le norme di legge in questione risalgono al 1992.

Si intende evidenziare che la Corte dei Conti ha iniziato a contestare la legittimità di tale sistema retributivo a partire dall’esercizio 2014 e non solo aveva dichiarato non regolari le poste di spesa concernenti il pagamento di dette indennità ai funzionari privi di incarico dirigenziale o di coordinamento ma la sezione giurisdizionale di Bolzano della Corte dei conti con sentenza n. 52 del 21-22 settembre 2017 (depositata il 15 dicembre 2017) aveva altresì pronunciato condanna a titolo di responsabilità amministrativa a carico dei funzionari che per conto della parte pubblica avevano stipulato i contratti collettivi in base ai quali erano stati disposti i pagamenti dal 1° giugno 2011 al 31 marzo 2016 oggetto di contestazione.

Tale vicenda appare inoltre emblematica in relazione ad una ulteriore questione e cioè quella della “resistenza” delle disposizioni di legge (non solo locale) che attribuiscono “privilegi” – o consentono l’assunzione di personale in violazione di norme costituzionali o dei principi fondamentali di riforma economico sociale stabiliti dal legislatore nazionale – : se l’amministrazione “toglie” violando la legge (o applicando una legge incostituzionale) è più facile reagire ed adire immediatamente il giudice (magari quello ordinario od amministrativo) perché il soggetto colpito dalla norma illegittima ha un interesse effettivo e diretto a rimuovere quest’ultima dall’ordinamento; quando l’amministrazione, emanando norme incostituzionali, “dà”, la reazione del “sistema” appare molto più complicata e lenta dato che (evidentemente) l’ente erogante e i soggetti beneficiati non hanno alcun interesse “concreto” ad impugnare tali norme mentre la “generalità dei consociati” (i comuni cittadini) che da un tale assetto normativo ricevono un danno indiretto (la moltiplicazione ingiustificata della spesa pubblica) non possano adire immediatamente l’autorità giudiziaria difettando loro l’interesse “formale” ad agire.Forse la categoria dell’“interesse ad agire” andrebbe ripensata e dovrebbe essere consentito ad una platea più estesa di soggetti (non solo quelli istituzionali come il Governo o la Corte dei Conti) di adire l’autorità giudiziaria (ordinaria od amministrativa) affinché quest’ultima possa subito sollevare questioni di legittimità costituzionale in relazione a tale tipologia di norme per c.d. “di favore”. Un controllo diffuso sarebbe più efficiente e, probabilmente, se fosse stato in vigore all’epoca dei fatti, non si sarebbero dovuti aspettare trent’anni per espungere dall’ordinamento un sistema retributivo (stabilito da norma di contrattazione collettiva e “garantito” da norme di legge provinciale e regionale) costituzionalmente illegittimo.

Sentenza Corte Costituzionale n. 138 del 2019